Il Green Deal italiano e i suoi benefici economici ed occupazionali
Nel pensiero comune gli interventi a favore dell’ambiente e del clima, che nell’ambito dei piani istituzionali vengono generalmente indicati col termine “Green Deal”, sono stati per anni equiparati a spese, a perdite economiche attuate per ottenere guadagni ambientali.
Ma si tratta di un’equivalenza realmente valida?
Non lo è, almeno secondo il nuovo report “Il Green Deal conviene. Benefici per economia e lavoro in Italia al 2030”, realizzato da Italian Climate Network (ICN) ed Està (Economia e Sostenibilità) con il finanziamento della European Climate Foundation.
Secondo quanto dichiarato nel report, la parola spese dovrebbe essere sostituita con la parola investimenti: i finanziamenti a politiche ambientali non sarebbero persi, ma, al contrario, genererebbero crescita economica e nuovi posti di lavoro.
Di seguito presentiamo una disamina di dettaglio.
Il report: i suoi obiettivi
Il report analizza le dinamiche economiche e del sistema produttivo italiano dal 1990 ad oggi, esamina gli attuali piani nazionali, indica gli investimenti necessari per allinearli agli obiettivi climatici europei e calcola i benefici economici e nel mercato del lavoro che tale allineamento porterebbe.
Cosa abbiamo ottenuto finora
I dati ISPRA indicano che l’Italia, dal 1990 al 2018, ha ridotto le proprie emissioni climalteranti del 17%. Complice l’espulsione dal mercato delle imprese più arretrate a seguito della crisi del 2008, tale riduzione è stata trainata dai settori manifatturiero e della produzione di energia, che hanno contratto le proprie emissioni rispettivamente del 48 e 30%.
Tali riduzioni sono però state in parte compensate dagli aumenti delle emissioni nei comparti economici tradizionalmente più impermeabili all’innovazione e all’introduzione di tecnologie a basso impatto climatico, in primis i trasporti e l’edilizia, caratterizzati da mezzi inquinanti ed edifici ad efficienza energetica particolarmente scarsa.
Nel 2018 le emissioni climalteranti di trasporti ed edifici insieme erano pari a quattro volte quelle dell’industria manifatturiera.
È proprio su questi due settori, insieme a quello dell’energia e quello agricolo/forestale, che si concentra il report.
I piani attuali e i nuovi obiettivi europei
L’attuale Piano Nazionale Italiano per l’Energia e il Clima (PNIEC), approvato nel 2019, prevede un investimento aggiuntivo rispetto alle politiche correnti di circa 14 miliardi l’anno, per raggiungere al 2030 una riduzione delle emissioni climalteranti annue del 40% rispetto al 1990. Gli obiettivi europei, però, nel frattempo si sono fatti ancora più ambiziosi: per raggiungere quanto promesso nell’Accordo di Parigi, sarà necessaria la neutralità climatica entro il 2050 e una riduzione delle emissioni climalteranti annue del 55% entro il 2030 (sempre rispetto al 1990).
Perseguire il nuovo obiettivo intermedio al 2030 richiederà – secondo il report – investimenti aggiuntivi rispetto al PNIEC di circa 86 miliardi l’anno.
Le proposte del report per un Green Deal italiano
In particolare, entro il 2030, i trasporti dovranno raggiungere un tasso di elettrificazione dei veicoli su strada di almeno il 30% del parco esistente, il doppio rispetto a quanto previsto dal PNIEC; l’efficientamento energetico degli edifici richiederà un investimento annuale pari a due volte e mezzo quello richiesto nel PNIEC.
D’altra parte, il surplus di domanda di elettricità al 2030 derivante dall’elettrificazione dei trasporti e dalla decarbonizzazione del settore residenziale potrebbe essere soddisfatto installando in dieci anni pannelli fotovoltaici su solamente il 4% del parco residenziale esistente. La strategia delineata dal report per il settore energetico punta infatti su un estensivo utilizzo del fotovoltaico – che dovrebbe costituire l’80% del mix elettrico al 2050 –, delle batterie e dell’idrogeno.
Nei settori agricolo e forestale, la diffusione di tecniche di agricoltura conservativa – capaci anche di aumentare nel lungo termine la produttività dei suoli –, una migliore gestione delle foreste e un maggior utilizzo del legname per edifici e mobili permetterebbero di ridurre le emissioni e di aumentare in modo rilevante gli assorbimenti naturali di carbonio.
I benefici risultanti
Gli sforzi ulteriori rispetto al PNIEC nell’energia, nei trasporti e nell’edilizia si tradurrebbero al 2030 in un’occupazione stabile aggiuntiva nell’ordine del 2,5%-3% (un incremento netto di unità di lavoro compreso tra 530.000 e 700.000) e in una crescita annua ulteriore del PIL dell’ordine dello 0,5%-0,6%. L’aumento dell’occupazione sarebbe concentrato nei settori dell’edilizia, dei trasporti e dell’energia rinnovabile, a fronte di un calo di sole 60.000 unità di lavoro in settori quali la produzione/distribuzione delle energie fossili e dell’energia termica per residenziale e terziario.
A questi benefici si aggiungono quelli legati alla riduzione dell’inquinamento atmosferico – e dei danni alla salute connessi (si ricorda che ogni anno l’inquinamento è responsabile nel mondo di quasi nove milioni di vittime, un quinto del totale delle morti premature) – e al miglioramento delle condizioni di suoli e foreste.
Conviene?
Si tratta in ogni caso di un investimento di (86+14=) 100 miliardi l’anno – uno sforzo economico ciclopico per il nostro paese – che porterebbe a una crescita del PIL dell'ordine di soli 10 miliardi l’anno (lo 0,5% dei circa 2 triliardi del PIL italiano), soprattutto a causa della dipendenza dall’importazione di tecnologie estere.
Non v'è dubbio che nel lungo termine si tratterebbe comunque di un investimento conveniente: le misure attuate andrebbero a mitigare i cambiamenti climatici e, dunque, le loro disastrose conseguenze (anche) economiche per il nostro paese.
Nel medio termine (dal 2030), invece, ai benefici economici elencati nel report sarebbe da aggiungere l'impatto della riduzione delle patologie legate all'inquinamento: nel 2018 una relazione della Corte dei conti europea ha indicato che «le diseconomie relative alla salute causate dall’inquinamento atmosferico raggiungono in totale una cifra compresa tra i 330 e i 940 miliardi di euro all’anno».
E l'Italia non è certo un paese virtuoso da questo punto di vista.
L'importanza dell'innovazione
Anche trascurando questi ultimi benefici, esiste una via d’uscita dall'impasse economica di breve-medio termine, un’opzione di investimento che permetterebbe all’Italia di essere leader nelle tecnologie low carbon, producendo internamente valore aggiunto e quindi ricchezza: l'innovazione.
“Ogni filiera produttiva è composta da una serie di fasi: un pannello fotovoltaico va ideato, progettato, realizzato, venduto, impiantato, mantenuto e alla fine dismesso. Ad ogni passaggio di questa filiera corrisponde una produzione di valore aggiunto (quantità di ricchezza incorporata in ogni singolo bene e servizio) e di occupazione, ma la quantità di valore aggiunto e la qualità dell’occupazione sono più alte in alcune fasi (quelle a più alto contenuto tecnologico) e meno in altre. Brevettare e produrre pannelli di nuova generazione non ha lo stesso impatto sulla ricchezza e il tipo di occupazione che installarli sui tetti, attività oggi prevalente in Italia."
Grazie a simulazioni statistiche, lo studio ha calcolato che 1 miliardo annuo di investimenti in tecnologia avanzata per 10 anni, rispetto allo stesso miliardo in tecnologia a basso contenuto innovativo, sarebbe in grado di produrre al 2030 100 milioni di ore lavorate annue e 10 miliardi di PIL in più.
Questi risultati “sottolineano la necessità di aumentare la spesa in Ricerca e sviluppo e gli sforzi di industrializzazione dei brevetti, per far sì che il nostro paese non resti nelle retrovie dell’innovazione, limitandosi ad acquistare la tecnologia green prodotta da altri”. Il sistema produttivo italiano, infatti, "sta scontando una tendenza all’arretratezza nella capacità di produrre beni a forte contenuto di tecnologia".
Insomma, la ricetta per un’Italia più ricca e più salubre è investire nell’innovazione green.
ET per Rete Clima