Quando il riscaldamento climatico finisce in Tribunale: il caso Exxon e la “carbon bubble” (bolla del carbonio)

Quando il riscaldamento climatico finisce in Tribunale: il caso Exxon e la “carbon bubble” (bolla del carbonio)

Lo scorso novembre 2015 è stato inviato un mandato di comparizione in Tribunale per il colosso petrolifero texano Exxon, nell’ambito di una richiesta di chiarimento che potrebbe far scattare una accusa di falsa rappresentazione della situazione economica aziendale in bilancio.

L’accusa nasce dal (concreto) sospetto che alcune attività di Exxon abbiano potuto dare una falsa prospettiva agli azionisti circa i rischi che il cambiamento climatico (e politiche climatiche collegate) avrebbe potuto determinare verso il core business aziendale.

Il New York Times ha riportato la notizia, precisando che l’indagine verso Exxon potrebbe potenzialmente espandersi anche ad altre compagnie petrolifere le quali, operando una erronea comunicazione circa i rischi climatici, avrebbero potuto falsare le rappresentazioni in bilancio.

Sul sito del Sole24Ore si legge che: "Dal Nyt dicono per la prima volta che Peabody Energy - il più grande produttore di carbone degli Usa - è stato sotto indagine per due anni della stessa procura. Anche in quel caso si voleva capire se avesse nascosto agli investitori i rischi finanziari associati al cambiamento climatico".

Sempre secondo l'articolo del New York Times, il sospetto del Procuratore Generale di New York Eric Schneiderman è che i vertici di Exxon non solo abbiano mentito al pubblico circa i rischi del climate change (anche erogando sovvenzioni a gruppi di ricerca impegnati nel negazionismo climatico), ma che abbiano anche agito scorrettamente nei confronti dei propri investitori dissimulando i rischi a cui il business aziendale sarebbe andato incontro a causa dei cambiamenti climatici.

Viene così ipotizzata una operazione di occultazione agli azionisti dei rischi economici prospettici verso l'Azienda a causa del climate change, con particolare riferimento alle relative politiche di tutela climatica che avrebbero potuto ragionevolmente portare alla disincentivazione del consumo di fonti fossili.

soldi_negazionismo_climate_changeSecondo l'articolo del Nyt le indagini si starebbero concentrando sugli anni ’80, il periodo in cui è stato provato che Exxon Mobil ha finanziato svariati enti negazionisti, pagati per negare le conclusioni della scienza del clima in merito all’origine antropica del climate change ed in merito alla correlazione diretta tra consumo di fonti fossili e cambiamento climatico.

Il dato certo è che Exxon aveva una chiara conoscenza circa la correlazione tra combustibili fossili e cambiamento climatico ancor prima che questa diventasse una informazione pubblica, quindi anche solo l'aver nascosto queste informazioni sensibili verso il proprio business potrebbe essere giudicato come azione di danneggiamento verso i propri azionisti, portatori di interesse verso il business aziendale.

Ricordiamo infatti il recente report dell'Union of Concerned Scientists (sopra linkato) che ha portato alla luce le email storicamente scambiante in Exxon da cui emerge la consapevolezza circa la correlazione diretta tra uso di combustibili fossili e cambiamento climatico già nel 1981, sette anni prima che divenisse una questione pubblica.

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Così come il "negazionismo climatico" delle major petrolifere è stato condotto in maniera similare alle storiche azioni di disinformazione promosse dalle major del tabacco tra gli anni ’50 e ’60 (finalizzate a confondere circa gli effetti nocivi del tabacco sulla salute dei fumatori), ugualmente questa azione giudiziaria sembra richiamare lo storico attacco dei procuratori generali americani contro le medesime Industrie del tabacco.

Proseguendo ed ampliando la riflessione, è altrettanto interessante constatare come l’attenzione degli investitori circa i rischi finanziari per le major del petrolio a causa di fattori ambientali sia in crescita, anche in considerazione della cosiddetta "bolla del carbonio".
Per "bolla del carbonio" si intende il potenziale crollo del valore economico delle Aziende impegnate nel settore delle energie fossili a causa degli “unrburnable fuels”, cioè la quota di riserve di combustibili fossili pur nella disponibilità delle Aziende o degli Stati che però non potranno mai essere estratte ed utilizzate in ragione delle politiche di tutela climatica, di contrasto al climate change.

Una situazione di cui nel corso del 2015 è stato espressamente chiesto conto anche ad Exxon da parte dei propri investitori.

Infatti nel corso del 2015 Arjuna Capital, “fondo di investimento sostenibile” e azionista della texana Exxon, aveva fatto formale richiesta di una informativa circa il potenziale impatto che le politiche di riduzione delle emissioni di gas serra potrebbero a breve avere sugli asset aziendali, e quindi sulla sua situazione patrimoniale e sui suoi bilanci: il problema è infatti legato alla capitalizzazione delle Aziende del settore petrolifero, che oggi considerano come veri e propri asset le proprie riserve petrolifere che però, se non potranno essere utilizzata in futuro per politiche climatiche, diventeranno “stranded asset” (cioè risorse bloccate, non utilizzabili) facendo così crollare la capitalizzazione ed il valore di tali Aziende.

La richiesta di Arjuna Capital deve essere inquadrata nella più ampia iniziativa di Ceres, un gruppo di 70 investitori globali con un portafoglio di circa 3.000 miliardi di asset, che sta chiedendo formalmente conto del rischio degli “stranded asset” alle 45 principali compagnie energetiche globali (tra cui anche l’italiana Eni).


Si consideri infatti che la IEA (Agenzia Internazionale per l’energia) nel proprio World Energy Outlook 2012 valutava il fatto che per restare entro l'obiettivo di + 2 °C di riscaldamento climatico (rispetto al periodo pre-industriale, un valore considerato quale limite superiore anche nella recente COP 21 di Parigi) non si potrà bruciare circa l’80% delle riserve fossili accertate.

Queste chiare indicazioni portano a porre una riflessione ed una domanda:
* ragionando in una pragmatica logica ambientale, emerge con chiarezza il fatto che oggi si stanno trattando come veri e propri “asset” anche le riserve energetiche fossili che non potranno mai essere utilizzate dato che sono pari a 5 volte il budget (di carbonio) che potrà essere utilizzato nei prossimi 40 anni, pena la catastrofe climatica;
* qual'è il motivo per cui si continuano le esplorazioni petrolifere, e qual'è la reale portata prospettica delle grandi scoperte di giacimenti fossili anche in tempi molto recenti)?

Si ricorda e sottolinea il fatto che lo studio "Unburnable Carbon – Are the world’s financial market carrying a carbon bubble?" del Carbon Tracker Initiative proponeva le medesime tesi, segnalando i limiti della capacità di utilizzo delle fonti fossili:

Comparison of the global 2°C carbon budget with fossil fuel reserves CO2

Secondo il report, che riprendeva la contabilità carboniosa del Potsdam Insitute, per ridurre fino al solo 20% la probabilità che il riscaldamento climatico superi l’obiettivo dei + 2°C (rispetto all’era pre-industriale), da qui al 2050 si potranno emettere 'solo' 565 Gt (Giga tonnellate, cioè miliardi di tonnellate) di CO2.

Le riserve di fonti fossili ad oggi conosciute (quindi al netto di nuove scoperte), qualora effettivamente bruciate ne potrebbero invece emettere 2.795 Gt CO2, ripartite come da figura superiore nelle percentuali di:
* 65% da carbone,
* 22% da petrolio
* 13% da gas.
Emerge quindi molto semplicemente il fatto che, rispetto alle riserve provate, per evitare catastrofi climatiche potremo allora bruciare solo il 20% di tali riserve, rendendo così le altre riserve -di fatto- senza più alcun valore economico.

Considerando però la proprietà delle riserve energetiche fossili, le riserve nella disponibilità delle 200 principali aziende mondiali del petrolio e del carbone equivarrebbero (qualora bruciate) “solo” a 745 Gt CO2, mentre le molto più ampie riserve di proprietà degli Stati nazionali valgono oltre 2.000 Gt CO2, un ulteriore fattore che limiterebbe in maniera più che proporzionale la capacità di utilizzo delle riserve da parte delle aziende private.

Quando il mondo economico si accorgerà che gran parte della capitalizzazione delle aziende petrolifere non ha valore (proprio in ragione del fatto che si tratta di “unburnable fuels), le conseguenze potrebbero essere inevitabilmente molto pensanti per l’intero sistema economico globale: si consideri solo che la capitalizzazione legata alle risorse energetiche fossili gioca un ruolo molto importante in molte Borse mondiali (anche fino al 30% alla Borsa di Londra), da qui si possono capire le potenziale conseguenze.

Secondo le stime del gruppo bancario HSBC, quando il mercato si accorgerà di questa situazione il valore di gran parte delle aziende del settore energetico fossile potrà crollare del 40-60%: una situazione che, insieme al deprezzamento del valore delle riserve fossili in relazione alla recente diminuzione del prezzo del greggio, potrebbe portare serie problematiche economiche alle aziende del petrolio.

Si parla di valori importanti perché ad oggi il patrimonio a rischio delle aziende fossili è valutato intorno ai 22.000 miliardi di $, e paradossalmente le Compagnie che ad oggi ritenute più “solide” (proprio perchè possiedono le maggiori riserve di fonti energetiche fossili) saranno inevitabilmente le più esposte.

In questa logica si capisce allora la ragionevolezza di diversi fondi di investimento che stanno diversificando il proprio portafoglio di investimenti disinvestendo dagli asset collegati alle fonti energetiche fossili per dirigersi invece verso aree di investimento considerate prospetticamente più sicure.

Molto deve ancora cambiare, e ce ne si accorgerà in tempi molto brevi.

Lo Staff di Rete Clima